lunedì 12 gennaio 2015

La Cura Come Invenzione Del Quotidiano - Francesco Stoppa (Parte 7)

Motivi organizzativi ci inducono ad interrompere, momentaneamente, la pubblicazione sul nostro blog.
Ci scusiamo per l'inevitabile disagio e vi ringraziamo perché continuate a seguirci,
nel frattempo... buone giornate, buon lavoro e buona assistenza!





La quotidianità è il dispositivo primo su cui costruire il transfert col soggetto psicotico nel lavoro istituzionale. La relazione di cura, prima di essere un investimento diretto sul terapeuta  cosa, come sappiamo, assai delicata quando non pericolosa nella cura dello psicotico -, va strutturata con l'ambiente, il luogo. Una considerazione che ci permette di aggiungere che la quotidianità è una pratica dello spazio condiviso.
Michel de Certeau - un pensatore che annovera tra le sue opere un libro che si intitola, per l'appunto, L'invenzione del quotidiano - diceva che esistono da sempre delle "pratiche ideatrici di spazio". Anche qui vale quanto detto sopra per il concetto di realtà, non c'è, nel campo dell'umano, lo spazio in quanto tale, ma un lavoro che continuamente facciamo per creare spazi, forme di abitabilità, di transitabilità, di incontro. Forme dinamiche, aperte. Quanto a noi, non si tratta semplicemente di sfruttare bene i luoghi - comunità, centri diurni, residenze, reparti, centri crisi- per quello che già offrono, si tratta, ancora di più, come sostiene De Certeau, di aprirli ad altro. Che cosa vuol dire?
In fondo tutto ciò non è molto diverso da quello che tanti nostri pazienti fanno tutti i giorni. Camminano, senza meta, su e giù per la città, oppure percorrono a piedi il territorio che collega due siti limitrofi, o coi loro passi ridisegnano il perimetro esterno della struttura. Si tratta di operazioni assai meno "croniche" di come possiamo pensare noi, che le giudichiamo delle abitudini regressive e puramente ripetitive, quando invece significano altro. Possiamo intenderle come un equivalente del disegno infantile. Siamo infatti di fronte a uno studio degli spazi, una mappatura fatta col proprio corpo anzichè con la matita, e su luoghi reali invece che su di un foglio, ma ciò che è veramente importante è che il tentativo di dilatazione del sito in cui è costretta l'esperienza del soggetto. A partire dal proprio corpo, la cui consistenza sempre troppo fragile o troppo solida viene confermata e dinamizzata dal movimento ritmico dei passi e della stessa fatica fisica.
Dovremmo comunque intravedere in questo apparente vagabondaggio una tecnica di sopravvivenza urbana o istituzionale, grazie alla quale, spostandosi, il paziente ritrova il senso dei confini, che ricalca e varca, e trascina con sé, spinge oltre spostandole come sposta dalla sua fissità il proprio corpo, le linee e i confini del mondo. Il susseguirsi dei sua passi riattiva le potenzialità dinamiche e ritmiche dello spazio, altrimenti condannato a pietrificarsi come un luogo fisso, uguale a se stesso, autoreferenziale. Pensiamoci, il paziente, qui, è già al lavoro con noi, sempre che noi siamo al lavoro con lui, interessati, cioè, ad aprire il campo d'esperienza ad altro.
In effetti, cosa fa esistere, e respirare, una realtà? Cosa non la mortifica, ad esempio, o ne fa una prigione, un luogo invivibile? Cosa rende la quotidianità una dimensione abitabile all'uomo? La sua apertura ad altro. Cosa che ci pone la questione di come l'altro filtri nelle nostre strutture, di come teniamo in gioco ciò che fa da terzo alla relazione terapeutica, spesso all'istituzione stessa. E' un po' come ritrovare nella funzione del limite la sua innata dimensione di soglia.

mercoledì 31 dicembre 2014

BUON 2015

La comunità LA SELINA augura di cuore, a tutti voi, uno splendido 2015!
Che il nuovo anno anno possa essere ricco di gioie, di sorprese, di emozioni, di novità e di calore umano.... 

BUON ANNO A TUTTI!


sabato 29 novembre 2014

La Cura Come Invenzione Del Quotidiano - Francesco Stoppa (Parte 6)

In queste settimane vi proporremo, suddiviso in parti, un articolo del Dott. Stoppa.. Da leggere come fosse un racconto ma da vivere con l'intensità di una scoperta!

Buona lettura!



Se ne deduce quindi che, più che essere degli zelanti funzionari della prova della realtà, di questa forca caudina che deciderebbe delle chance di adattamento della persona a standard di normalità decisi a tavolino, sarebbe il caso di provare ad essere dei buoni costruttori di realtà di prova. Proprio nel senso in cui, Correale, ad esempio, definisce le strutture residenziali come degli "apparati produttivi di quotidianità". Nel senso in cui, ancora, la comunità terapeutica è la cornice in cui, a certe condizioni, il soggetto realizza gradatamente la propria condizione umana di base, il suo essere uomo tra gli uomini, a contatto con oggetti che riconosce come familiari. La nostra soggettività necessita di questo fondo primario - che è psichico e allo stesso tempo già sociale - dove, ancor prima di dichiararsi come "io", con un'identità precisa, un nome, un ruolo, un'immagine da difendere, ognuno ritrova ed esplora la sua dimensione umana di base, la propria condizione qualunque (come dice Agamben), la cifra soggettiva pre-individuale (come invece sostiene un altro filosofo, Simondon). Questa dimensione dell'essere uomini la si raggiunge e la si rigenera costantemente, un giorno dopo l'altro, proprio nella quotidianità.
Bene, noi come la tuteliamo questa realtà di base, come permettiamo al paziente di ritessere questo tessuto primario dell'esperienza umana? Quando, ad esempio, gli poniamo troppo presto la questione del lavoro, insistiamo troppo presto perchè migliori la sua immagine personale o sociale, gli facciamo veramente un buon servizio? O stiamo prendendo una scorciatoia che serve a noi, perché è certamente più facile deviare la cura sui binari della normalità, del "così fan tutti", piuttosto che stare con il paziente, lì nel quotidiano, a costruire le condizioni di base dell'umanizzazione. La sua e la nostra. Ritorneremo più in la su questa impasse del controtranfert.
Ora chiediamoci, come intendere il concetto di quotidianità? E perché è così importante nella cura delle psicosi?

lunedì 17 novembre 2014

LA CURA COME INVENZIONE DEL QUOTIDIANO - Francesco Stoppa (Parte 5)

In queste settimane vi proporremo, suddiviso in parti, un articolo del Dott. Stoppa.. Da leggere come fosse un racconto ma da vivere con l'intensità di una scoperta!

Buona lettura!



Attenzione però, di quale realtà parliamo quando ne invochiamo la centralità nel processo di cura? E' un punto decisivo. Forse i meno giovani ricordano come un tempo - ma forse ancor oggi - si insistesse molto sul concetto di "prova di realtà" o si enfatizzasse il valore terapeutico del reinserimento sociale e del lavoro. Bene, in tale accezione, "realtà", a mio avviso, ha già un connotato indigesto, per l'esattezza assume un tratto superegoico: " Vediamo se il tuo delirio e le tue paure tengono davanti alla prova dei fatti.... Riconosci dunque la realtà, piegati alle sue esigenze!"; oppure (versione più politicamente corretta): "Vedrai che il buon incontro con la società, col mondo reale, la produttività, gli altri, scioglierà come neve al sole il tuo dolore e la tua paura della vita". Credo che qui possiamo capire bene la preoccupazione di Sassolas che gli operatori condividano una certa concezione della complessità delle cose e del loro compito, proprio per evitare di ristagnare in visioni ideologiche o ingenue della sofferenza psichica.
Dobbiamo prestare attenzione, nella cura della psicosi, a non tradurre immediatamente il fattore politico sul piano del reinserimento, della cosiddetta inclusione sociale del paziente. Il gradiente culturale, politico, del nostro lavoro passa per ben altro, per qualcosa si più radicale e basico: come costruire le condizioni per una riabitabilità della realtà, in particolare dei legami sociali. Realtà non è, il qui, "la società", il lavoro, la produttività, le regole, il buon adattamento, l'igiene, ma è un campo simbolico nel quale ciascuno è chiamato a realizzare la propria umanizzazione (antropopiesi direbbero gli antropologi). Come dice Anna si diventa uomini. E certamente lo psicotico è qualcuno che incontra particolari difficoltà in questa operazione che, per dirla qui in breve, ha a che fare con la possibilità di abitare in termini sufficientemente creativi il proprio nome e il proprio corpo all'interno di una certa storia.

mercoledì 5 novembre 2014

LA CURA COME INVENZIONE DEL QUOTIDIANO - Francesco Stoppa (Parte 4)

In queste settimane vi proporremo, suddiviso in parti, un articolo del Dott. Stoppa.. Da leggere come fosse un racconto ma da vivere con l'intensità di una scoperta!

Buona lettura!



Cos'è la realtà?

Torniamo alla clinica. Dopo mezzo secolo di comunità terapeutica, di psicoterapia istituzionale, noi siamo in grado di affermare che la cura della psicosi grave è una cura di tipo ambientale che ha come suo primo obiettivo il ripristino delle condizioni che consentano al paziente di "sentirsi situato" nel mondo. In linea con Freud, che giudicava la psicosi come una perdita di realtà, Sassolas afferma che <<la realtà esterna è il cammino obbligato verso il quale dobbiamo passare per raggiungere la realtà interna del paziente>>, aggiungendo che proprio gli operatori rappresentano la cerniera tra realtà e mondo psichico.
Certo è un compito per niente facile, il nostro: lavorare a partire da una dimensione che si presenta enigmatica, invasiva, caotica (la realtà, appunto, che spesso il paziente cerca di abolire) per cercare di ripristinare in essa un certo ordine, che non vuol dire, innanzitutto, delle regole ma piuttosto un senso umano delle cose e delle relazioni: quel sentimento delle cose, quel quotidiano, di ciò che serve per diventare "uomini innanzitutto umanamente", di cui parlava Anna,
Ma che cos'è la realtà? E, questione decisiva, cosa gli operatori pensano che sia realtà? Di certo non è un dato naturale, è una costruzione umano, meno fissa e stabile di come solitamente ci sembra essere. Certo, la consapevolezza di questo fatto ci espone a un sentimento di fragilità ("cosa fa stare su il mondo?": capita che i bambini se lo chiedano), ma a ben vedere il fatto che la partita non sia mai chiusa, che il mondo sia un sistema aperto, insaturo, in parte almeno reinventabile, rappresenta la condizione che ci permette di  parlare di cura. Se è vero, come diceva Lacan, che dalla vita non si guarisce, è pur vero che il mondo è almeno parzialmente rimodellabile proprio perchè non ha una struttura troppo statica. Potremmo dire che ha uno statuto poetico, facendo con ciò riferimento a nulla di troppo romantico ma alla poiesis dei greci, che significa costruzione, invenzione, adozione.
Tutto ciò che della dimensione umana ci hanno insegnato filosofi come Hiddeger (l'uomo è chi genera il mondo) o psicoanalisti come Winnicott (si pensi al concetto di area transizionale, cioè a come il bambino entra nella realtà facendosela propria). Tutto ciò ci fa ben sperare che, a certe condizioni, la percezione della realtà nella psicosi sia un fatto reversibile e che essa si possa rendere ai suoi occhi assai più praticabile, abitabile, familiare.

La Cura Come Invenzione del Quotidiano (Parte3)

La Cura Come Invenzione del Quotidiano (Parte2)

La Cura Come Invenzione de Quotidiano (Parte1)

lunedì 27 ottobre 2014

LA CURA COME INVENZIONE DEL QUOTIDIANO - Francesco Stoppa (Parte 3)

In queste settimane vi proporremo, suddiviso in parti, un articolo del Dott. Stoppa.. Da leggere come fosse un racconto ma da vivere con l'intensità di una scoperta!

Buona lettura!



Prima di tornare sulla questione clinica, credo sia importante mettere brevemente a fuoco una questione che concerne noi operatori della salute mentale e che Marcel Sassolas puntualizzava più volte nel suo libro sulla terapia delle psicosi. E' come se ci dicesse "Attenzione, possiamo avere a disposizione un certo numero di risorse, essere motivati e competenti, ma ci sono due ingredienti della ricetta che non possono mancare se vogliamo offrire ai nostri pazienti un piatto digeribile, nutritivo e possibilmente appetibile. Si tratta I°: di sviluppare una "coerenza intellettuale delle concezioni della patologia mentale e della cura condivise dai membri dell'equipe". II°: di capire se esista e di cosa sia fatto il clima affettivo vigente all'interno dell'equipe. Quanto a questo secondo punto, Correale, nella sua introduzione a Terapia delle psicosi, scrive che il gruppo "è il grande modulatore della quotidianità e la quotidianità in gruppo è il grande tramite, il passaporto, che permette il transito all'incontrario di cui parla Sassolas" (cioè aiutare lo psicotico a dar rientrare in sè quella realtà che tende a rigettare fuori di sè e, quindi, a riconciliarsi con il mondo o, direbbe Blankenburg, ritrovare l'evidenza naturale del proprio essere al mondo) . Non manca mai, nel testo di Sassolas, questo ritorno alle domande di base, a ciò che noi pensiamo di cose mica da niente come la soggettività, la malattia, la cura, la realtà, l'istituzione; a cosa pensiamo debba essere il nostro compito, fino alla questione radicale, non solo clinica ma anche politica politica e cioè: "Oggi cosa significa curare uno psicotico?". La risposta alla quale, senza una teoria di riferimento, viene affidata allo spontaneismo, ala buona volontà degli operatori, o prende la via della burocrazia e dell'efficientismo, protocolli e sistemi di valutazione. Dal troppo pathos alla rigidità affettiva, insomma.

La Cura Come Invenzione Del Quotidiano Parte 1

La Cura Come Invenzione Del Quotidiano Parte 2

domenica 12 ottobre 2014

LA CURA COME INVENZIONE DEL QUOTIDIANO - Francesco Stoppa (Parte 2)

In queste settimane vi proporremo, suddiviso in parti, un articolo del Dott. Stoppa.. Da leggere come fosse un racconto ma da vivere con l'intensità di una scoperta!

Buona lettura!




E quando le viene un po' provocatoriamente chiesto se non pensa troppo a se stessa, la paziente, con decisione, afferma:

"Non è così! Penso a un qualche cosa di cui ciascun essere umano ha bisogno. Senza questo qualche cosa non è assolutamente possibile vivere."

Non è quindi possibile vivere, ci dice Anna, senza un sentimento del quotidiano. D'altronde non sarebbe possibile per nessuno. Ma, al di la del fatto che ogni frase meriterebbe che noi la commentassimo e che quello che Anna dice conferma che i nostri primi maestri di psichiatria sono i pazienti stessi, è importante soffermarsi su alcuni punti salienti.
Ad esempio, cosa ci dice Blankenburg, cosa ha imparato da questa come da altri pazienti?
1) La psicosi è un disturbo - dice - del loro essere-uomini, e il loro disturbo fondamentale consta in una "mancanza di terreno basale". Scrive, ad esempio, di Anna: "Intensamente colpita e iperstimolata da tutto ciò che le accadeva, appariva del tutto priva di difese, come se ogni evento imprevisto comportasse l'aprirsi di una breccia persistente nell'organizzazione strutturale della sua personalità. Era dominante una rigidità reattiva rispetto alle sollecitazioni permanenti che traevano origine dal quotidiano più banale, e anzi precisamente da quest'ultimo".
2) Il danno, prima ancora di situarsi a livello della realtà esteriore o di quella del mondo interno o della percezione del proprio corpo, è un danno della "realtà interumana", che comporta una fragilità o una perdita dello stare, un'atrofia o una rottura della fiducia.
3) La cura di questi pazienti deve mirare in primo luogo non tanto a "progetti del mondo o di sè", quanto a produrre una "trasformazione del loro sentirsi situati".
Sintetizzando la psicosi sarebbe la manifestazione di un danno alla strutturazione soggettiva di base che ha per conseguenza l'impossibilità di costruire un senso di familiarità con il mondo e con gli altri.