Ci scusiamo per l'inevitabile disagio e vi ringraziamo perché continuate a seguirci,
nel frattempo... buone giornate, buon lavoro e buona assistenza!
La quotidianità è il dispositivo primo su cui costruire il transfert col soggetto psicotico nel lavoro istituzionale. La relazione di cura, prima di essere un investimento diretto sul terapeuta cosa, come sappiamo, assai delicata quando non pericolosa nella cura dello psicotico -, va strutturata con l'ambiente, il luogo. Una considerazione che ci permette di aggiungere che la quotidianità è una pratica dello spazio condiviso.
Michel de Certeau - un pensatore che annovera tra le sue opere un libro che si intitola, per l'appunto, L'invenzione del quotidiano - diceva che esistono da sempre delle "pratiche ideatrici di spazio". Anche qui vale quanto detto sopra per il concetto di realtà, non c'è, nel campo dell'umano, lo spazio in quanto tale, ma un lavoro che continuamente facciamo per creare spazi, forme di abitabilità, di transitabilità, di incontro. Forme dinamiche, aperte. Quanto a noi, non si tratta semplicemente di sfruttare bene i luoghi - comunità, centri diurni, residenze, reparti, centri crisi- per quello che già offrono, si tratta, ancora di più, come sostiene De Certeau, di aprirli ad altro. Che cosa vuol dire?
In fondo tutto ciò non è molto diverso da quello che tanti nostri pazienti fanno tutti i giorni. Camminano, senza meta, su e giù per la città, oppure percorrono a piedi il territorio che collega due siti limitrofi, o coi loro passi ridisegnano il perimetro esterno della struttura. Si tratta di operazioni assai meno "croniche" di come possiamo pensare noi, che le giudichiamo delle abitudini regressive e puramente ripetitive, quando invece significano altro. Possiamo intenderle come un equivalente del disegno infantile. Siamo infatti di fronte a uno studio degli spazi, una mappatura fatta col proprio corpo anzichè con la matita, e su luoghi reali invece che su di un foglio, ma ciò che è veramente importante è che il tentativo di dilatazione del sito in cui è costretta l'esperienza del soggetto. A partire dal proprio corpo, la cui consistenza sempre troppo fragile o troppo solida viene confermata e dinamizzata dal movimento ritmico dei passi e della stessa fatica fisica.
Dovremmo comunque intravedere in questo apparente vagabondaggio una tecnica di sopravvivenza urbana o istituzionale, grazie alla quale, spostandosi, il paziente ritrova il senso dei confini, che ricalca e varca, e trascina con sé, spinge oltre spostandole come sposta dalla sua fissità il proprio corpo, le linee e i confini del mondo. Il susseguirsi dei sua passi riattiva le potenzialità dinamiche e ritmiche dello spazio, altrimenti condannato a pietrificarsi come un luogo fisso, uguale a se stesso, autoreferenziale. Pensiamoci, il paziente, qui, è già al lavoro con noi, sempre che noi siamo al lavoro con lui, interessati, cioè, ad aprire il campo d'esperienza ad altro.
In effetti, cosa fa esistere, e respirare, una realtà? Cosa non la mortifica, ad esempio, o ne fa una prigione, un luogo invivibile? Cosa rende la quotidianità una dimensione abitabile all'uomo? La sua apertura ad altro. Cosa che ci pone la questione di come l'altro filtri nelle nostre strutture, di come teniamo in gioco ciò che fa da terzo alla relazione terapeutica, spesso all'istituzione stessa. E' un po' come ritrovare nella funzione del limite la sua innata dimensione di soglia.

